Il DOSSIER del numero 336 è illustrato da Guya Bonaga
Redazione I Martedì
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L’artista del mese: Guya Bonaga
Guya Bonaga ha collaborato con diverse testate. Dalla sua ampia ricerca sul tema dell’infanzia ha estratto tre mostre fotografiche ( al Palazzo del Ridotto di Cesena, Galleria d’arte di Sassuolo, Centro Civico Casa dell’Angelo in via San Mamolo).
Ha collaborato con diverse riviste settimanali e mensili, come Famiglia Cristiana, curato fotograficamente riviste di associazioni e ha lavorato per alcuni settimanali, con servizi fotografici commissionati.
Com’è iniziata la passione per la fotografia? C’è stato un momento preciso o è stato un lento processo d’interesse?
Ricordo in modo netto l’attimo in cui è nata la mia passione per la fotografia. Avevo 17 anni, è successo un giorno nelle zone della bassa ferrarese, davanti a delle spighe di grano ondeggianti illuminate dal sole. Erano intrise di una bellezza quasi palpabile e io non potevo far fuggire quel momento di commozione, avrei voluto arrestarlo e da questa ansia di fermarlo si è poi sviluppato il mio amore per la fotografia. Penso che tutto sia nato da quella necessità di materializzare una sensazione interiore ricevuta gratuitamente da qualcosa o da qualcuno. Da allora la ricerca fotografica ha accompagnato la mia vita, marginalmente ma intensamente.
La fotografia sembra lanciare una sfida al passare del tempo, all’esistenza effimera delle cose. Fermate, cogliete l’istante. Si sente una sorta di responsabilità in quel gesto?
Fotografare per me vuol dire dunque incontrare qualcosa o qualcuno che inaspettatamente mi sta chiamando. Qualcosa che di improvviso mi attrae fortemente e può essere un gesto, uno sguardo, una sfumatura particolare, una disposizione di colori, un complesso armonico. È qualcosa che di colpo si stacca da tutto il resto per comunicarmi gioia, bellezza, tristezza, e si pone a me in modo inequivocabile. La fotografia è nata proprio come un’esigenza, perché se riesco a intrappolare l’immagine così come la sto sentendo, ho la sensazione di aver bloccato per me una particella di “sublime”. Il tempo con il suo fluire non rende uguale un attimo da quello successivo, eccone la preziosità, e la vita raccoglie attimi , ognuno di essi irripetibile. L’illusione dello scatto fotografico è di far rivivere l’attimo fuggente nel tempo.
Fotografare è riprendere, ma anche interpretare la realtà. Come si mescolano, s’influenzano, si conciliano questi due aspetti nelle tue foto?
La ricerca fotografica non significa solo aspettare la chiamata di quel momento/evento, ma anche un lasciarmi andare a un’accoglienza di ciò che mi circonda. È uno stato d’animo di “ricettività” che forse mi aiuta a sentire sulle cose e nelle persone come un’aureola di bellezza da loro emanata. Avvicinarmi con l’obiettivo, significa entrare sempre più in sintonia con la loro ”essenza” e interiorità, scoprirla e soprattutto incontrarla. Diventa un’esperienza di stupita ammirazione, quasi incanto, se mi lascio trasportare per esempio dall’allegria di un groviglio di reti dalle tinte pastello, in un porto, o un’esperienza umana quando incontro un volto di una persona che fa trapelare il suo vissuto.
Sono sempre molto” presa” da ciò che sto fotografando, c’è qualcosa che emerge dal ”soggetto” umano o naturalistico, che mi arriva nel cuore e io gli voglio dare verità, autenticità, metterlo alla luce. A seconda di come scelgo di inquadrare il groviglio di reti potrei accentuare malinconia o vivacità ma questa scelta è già dettata dal soggetto stesso perché nel momento in cui l’immagine mi ha attratta ha già determinato la mia interpretazione.
Quando riguardo una fotografia scattata da me, rivivo anche l’impressione che ho vissuto nell’occasione dello scatto. Nella foto ch’è il risultato di un incontro, c’è qualcosa del soggetto ripreso e di mio insieme. C’è una fotografia in bianco e nero che se la riguardo fa riemergere, anche dopo vent’anni, intatto, ciò che quell’incontro mi aveva trasmesso: è un nugolo di bambini con delle primule in mano che sono usciti da scuola, in una giornata di primo sole primaverile, da brivido per i colori intatti della natura. Questi bambini avanzavano all’unisono con il turgore dell’aria e quella loro gioia era come rimbalzasse nella luce. Avveniva In un paese povero della ex Iugoslavia e nel riguardare lo scatto rivivo tutto nel silenzio, nell’astrattezza senza le voci, come se fosse rimasta compressa lì sulla carta,
solo l’anima.
Le sue foto ritraggono spesso persone: bambini, anziani, donne. È diverso, e in che modo, inquadrare una persona o un paesaggio, un soggetto naturalistico?
[…] Leggi l’articolo completo nel numero 336 “Di Nuovo a scuola”
a cura di Chiara Sirk