La storia (non) è maestra di vita

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Giovanni Bertuzzi

Direttore responsabile della Rivista I Martedì, Direttore del Centro San Domenico e Preside dello Studio Filosofico Domenicano.

354 Editoriale N° 1 anno 45

La storia (non) è maestra di vita

La memoria storica non va mai persa, per non dimenticare “da dove proveniamo”, per non perdere le nostre origini e i valori che abbiamo ereditato, ma soprattutto per ricordare gli errori e i crimini che sono stati compiuti o che sono stati subiti, affinché non vengano ripetuti, da noi o da altri. In questo primo senso diciamo che la storia deve diventare maestra di vita. Ma a questo principio, purtroppo, se ne contrappone un altro, quello dell’“eterno ritorno”, quello secondo il quale ciò che accade inevitabilmente era già accaduto e inevitabilmente si ripeterà. È la legge storica che segue apparentemente una logica di giustizia, per cui “quello che è dato è reso” e allora faccio del bene a chi mi fa del bene, e faccio del male a chi mi fa del male. E la gratitudine così è strettamente legata alla vendetta, entrambi obbediscono al medesimo meccanismo psicologico, quello che sentiamo spontaneamente nascere dentro di noi, quando riceviamo un bene e quando subiamo un torto. E la giustizia retributiva non va al di là di questo, non supera la logica de “l’occhio per occhio e dente per dente”. Tuttavia, anche la legge dell’Antico Testamento obbedisce a un criterio di “memoria storica” che è quello che ci interessa, perché essa esordisce affermando “Io sono il Signore Dio tuo, che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto e dalla condizione di schiavitù” , perciò, si dice nel Levitico, nell’Esodo e nel Deuteronomio, accogli anche tu il forestiero come un tuo fratello, perché anche tu sei stato forestiero in terra d’Egitto. Tu sei stato vittima della violenza e dell’oppressione, ricordano i Libri della Legge, e come sei stato riscattato anche tu riscatta chi si trova in una simile situazione.

C’è un episodio famoso nella vita di Nelson Mandela, che mi piace ricordare. Un giorno Mandela, dopo che era stato liberato dalla prigionia, dopo che aveva contribuito al superamento dell’ “apartheid nel suo paese” e dopo che era stato eletto presidente del Sudafrica, si recò in un ristorante con la sua scorta e lì incominciarono a mangiare. In un tavolo vicino era seduto un signore, che mangiava da solo. Mandela ordinò di andare a chiamarlo e di invitarlo a sedere vicino a lui. Quello non rifiutò, ma tutti notarono che, mentre mangiava con loro, gli tremavano vistosamente le mani. Quando alla fine del pranzo Mandela si accomiatò da lui, gli uomini della scorta gli fecero notare quel particolare e si chiedevano se quel tremore non dipendesse da una malattia. Mandela rispose di no, che quel tale non era ammalato, ma era stato il suo carceriere, e gli aveva inflitto ogni sorta di malvagità in prigione. Le mani, allora, gli tremavano per l’imbarazzo che provava nel trovarsi vicino a chi aveva vessato in carcere come suo carceriere, e adesso, invece di vendicarsi come avrebbe potuto, lo aveva fatto mangiare accanto a sé.

[…]

Leggi l’articolo completo nel numero 354 “L’uomo e i suoi diritti” 

Giovanni Bertuzzi

Direttore responsabile della Rivista I Martedì, Direttore del Centro San Domenico e Preside dello Studio Filosofico Domenicano.

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